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LAVORO DI CURA, LAVORO ESSENZIALE E FEMMINILIZZAZIONE DEL LAVORO

APPUNTI E RIFLESSIONI

Vediamo come in questa società tutto il lavoro di cura e sostentamento tanto fondamentale per la riproduzione dei legami sociali e per il mantenimento del quotidiano sia distribuito sulle linee di classe, genere e razza: una divisione sessuale, sociale e razziale che “esonera” le privilegiatə dal lavoro considerato socialmente ‘sporco’, pesante, poco remunerativo o ritenuto di ‘scarso valore’.

E’ importante oggi comprendere come viene distribuita la responsabilità di prendersi cura della vita umana nelle nostre società, come si declina questa necessità che ci riguarda tuttə, da quali dispositivi viene normata.

Con ‘lavoro di cura’ intendiamo tutte quelle attività fondamentali per la riproduzione dei legami sociali e per il mantenimento del quotidiano, e che possono comprendere un ampio spettro di attività, dal prendersi cura dei bambini, degli anziani, delle persone ammalate o sofferenti, alle pulizie e al preparare da mangiare, al lavoro relazionale…

Queste attività, tanto necessarie alla riproduzione del quotidiano, sono da sempre escluse e relegate ai margini dal dibattito politico.

Tutto il lavoro cosiddetto ‘riproduttivo’, inteso come lavoro di cura ‘essenziale alla vita di una comunità’ viene considerato come naturalmente dato, scontato, un lavoro immobile e fisso all’interno dell’architettura della nostra società.

Al fondo della marginalità politica di questo sfruttamento la costruzione sociale di una “naturale” vocazione femminile alla cura, un’attribuzione arbitraria utile ad ignorare e a non riconoscere l’oppressione su cui si sostiene il privilegio di chi invece può sentirsi esoneratə da queste attività.

L’esclusione della cura dal discorso pubblico esprime un preciso criterio, una precisa ontologia sociale ed epistemologia della costruzione del discorso dominante: il mito dell’autonomia e dell’indipendenza che ha relegato il corpo, i suoi bisogni, le sue emozioni e i suoi sentimenti in un privato de-storicizzato, costruito attraverso la separatezza e l’illusione di un’autosufficienza indeterminata, non attraverso l’interdipendenza delle relazioni e dei bisogni.

Un altro nodo che ha escluso il lavoro di cura dal dibattito politico è il positivismo tecnicista che ha assegnato un ruolo salvifico e tutto capitalista alle macchine nell’emancipazione dell’umanità, la dottrina di un soluzionismo tecno-scientifico in cui ‘la macchina’ diventa il fine stesso e il principio che guida e regola ogni cosa.

Assistiamo alla progressiva femminilizzazione del lavoro e al complementare processo di rimascolinizzazione dello Stato.

Con ‘femminilizzazione del lavoro’ intendiamo quel processo che vede l’ampliarsi di un lavoro flessibile e scarsamente tutelato con l’estensione di modalità e caratteristiche che storicamente hanno connotato il lavoro domestico e di cura, come l’impegno senza orario e la tendenziale gratuità.

Si espandono i settori della cura, dell’assistenza, del consumo, della comunicazione e più in generale del settore dei ‘servizi’, un processo che si accompagna all’indebolimento dell’industria ‘tradizionale’ e all’espansione dell’alta tecnologia.

Un lavoro frammentato e frammentante, spesso a chiamata, flessibile e sfruttato dove non solo diventa impossibile recuperare qualsiasi soggettivazione ma dove si cancella qualsiasi possibilità di autogoverno sulla propria esistenza.

Con rimascolinizzazione dello Stato intendiamo il rinforzarsi di politiche securitarie e di irrigimentazione dello Stato e delle strutture che lo sorreggono.

L’enfasi eroica sulla ‘dedizione del personale infermieristico’ degli ultimi tempi, mentre la sanità è al collasso, è un esempio di come la femminilizzazione del lavoro e le retoriche paternaliste dominanti siano utili a coprire e a sostenere i rapporti di potere e oppressione che reggono l’attuale assetto sociale: una ‘dedizione’ utile ad isolare chiunque provi a mettere in discussione la propria condizione di oppressə all’interno di un’organizzazione irrazionale e di un modello di sviluppo insensato che genera l’infelicità, la malattia e l’insoddisfazione della quasi totalità degli individui che lo subiscono.

Il processo di femminilizzazione del lavoro depotenzia il conflitto rompendo i vincoli di solidarietà e promuovendo quella lotta fra poverə e fra soggettività diversamente oppressə tanto utile al Capitale.

E’ evidente quanto la fatica ad organizzare una resistenza derivi dall’inesorabile sottrazione di reali spazi di autodeterminazione, soggettivazione e messa in comune delle esperienze, in favore della competizione fra individualità deprivatə, impegnatə a sopravvivere e concorrere come monadi per rimanere a galla.

E’ dalla problematizzazione del lavoro di cura e del lavoro considerato ‘essenziale’ che bisognerebbe ripartire: il lavoro considerato ‘essenziale’ rientra tra i segmenti più precari e sfruttati del mercato del lavoro ma rappresenta allo stesso tempo il ganglio fondamentale senza la quale l’intera economia non si reggerebbe.

La generalizzata pacificazione in queste relazioni di lavoro e più complessivamente nella società non corrisponde a nessuna pace sociale ma alla devastante capacità delle logiche del potere di penetrare sempre più in profondità nella vita delle persone.

Il ricatto del salario continua a svolgere il suo ruolo storico di dispositivo alla base della divisione in classi e della subordinazione della forza lavoro, della creatività e dell’ingegno delle sfruttatə agli interessi del Capitale.

Nonostante i più giovani vadano sempre più assumendo posizioni di completa indifferenza nei confronti del mondo del lavoro e della scuola, questo rifiuto non si traduce nel desiderio, nella vitalità, nel conflitto per una vita radicalmente diversa, quanto piuttosto nel completo assorbimento all’interno dell’industria dell’intrattenimento, che con la digitalizzazione ha esteso violentemente i suoi tentacoli.

Al processo di femminilizzazione del lavoro segue infatti il processo di infantilizzazione degli individui.

Cambiano le richieste del mercato e con esse i paradigmi che regolano le relazioni di potere e il modo in cui gli Stati e il Capitale assoggettano i cittadini.

Il cittadino modello diventa cliente, prosumer, utente ‘utonto’ asservito alle logiche del profitto, orientato e informato nei suoi bisogni dai processi produttivi che lo derubano e dai dispositivi sempre più intrusivi che lo guidano e determinano, mentre dall’altra parte chi lo addestra alla passività aumenta i guadagni e fa profitto sulla sua pelle.

Conosciamo le logiche del potere, o le rovesciamo insieme, o al massimo, da solə, si può aspirare a sopravvivere (a patto di poterselo permettere).